di Giuseppe Zema

Mi è capitato di partecipare a un interessante confronto con don Armando Matteo, giovane teologo e docente presso importanti università cattoliche romane. Pur essendo giunto con animo predisposto ad ascoltare più o meno “le solite cose”, ben presto ho potuto apprezzare una analisi interessante e acuta della nostra società e dei cambiamenti negli ultimi 50 anni, anche in relazione al modello di parrocchia che conosciamo.
L’analisi parte da una fotografia della società del dopoguerra dove l’aspettativa di vita media per un uomo era di circa 55 anni e 65 anni per una donna . Le condizioni di vita erano tali per cui il confronto costante con la miseria, la malattia e la morte facevano, in fondo, parte della vita stessa. Per un uomo adulto la priorità dunque diventava quella di trasmettere la propria esperienza ai figli in modo da renderli quanto prima indipendenti nel loro cammino verso la maturità. Il ruolo educativo rigido e inflessibile del padre viene dunque da questa necessaria vocazione all’adultità, cioè  “dimenticarsi di sé per prendersi cura degli altri”. In questo percorso il conforto della religione cattolica, e quindi della parrocchia, come luogo dove l’adulto può esprimere la sua fede e trovare il supporto della comunità, rappresenta il naturale ambito dove dare un senso alto alla propria esistenza.
Riguardo alle donne la situazione non era molto differente, spesso venivano avviate ad un percorso di vita già predefinito, con un matrimonio in giovane età, tanti figli da accudire, magari anche i genitori o i suoceri anziani in casa, per cui di fatto il tempo libero per loro non esisteva. Le donne avevano un ruolo sottoposto agli uomini e se capitava di rimanere vedove dovevano di nuovo rimboccarsi le maniche. Il senso religioso delle donne dell’epoca, molto forte, per tradizione o per vocazione, trova nella devozione a Maria probabilmente il riscatto da questa situazione, essendo lei la più importante rappresentante dell’umanità viene venerata dall’intera Chiesa Cattolica.
Saltando ai giorni nostri vediamo invece un’aspettativa di vita per gli uomini a 82 anni e a 86 per le donne. In aggiunta a questo c’è il fatto che la qualità della vita è enormemente migliorata, si arriva a quest’età spesso in piena forma fisica e mentale grazie alle nuove tecnologie mediche e alle condizioni di lavoro migliori. La disponibilità economica, che nonostante i periodi di crisi è comunque molto più alta, e la disponibilità di tempo libero da parte soprattutto delle donne, ha fatto si che negli adulti l’orizzonte di riferimento sia diventato quello nel quale “la giovinezza assume valore di modello per l’intera esistenza“. Si vuole rimanere il più possibile giovani; si dice infatti che la generazione dei 40-50enni è la prima della storia ad essere “innamorata della vita”. Gli uomini continuano a comportarsi come giovani, le donne hanno più tempo per loro e per realizzare le loro aspirazioni.
Tutto ciò ridefinisce il rapporto degli adulti con l’esperienza della vecchiaia, della malattia, della morte. Ridefinisce l’esperienza cristiana dell’esistenza, e del modello di educazione dei figli.
E qui nasce un altro punto: svanita l’urgenza della trasmissione della nostra esperienza ai bambini, e mancando negli adulti il senso di responsabilità che ne deriva, questa crisi dell’adultità determina una supervalutazione del bambino, crediamo che i nostri figli siano tutti piccoli “Einstein”, tutti santi e tutti atleti olimpionici… peccato che sono gli “altri” che non lo riconoscono… Cerchiamo in loro una maturità precoce, chiediamo a loro cosa vogliono e li assecondiamo sempre come se avessero la capacità di discernere. Non siamo più ansiosi di trasmettere loro gli insegnamenti di vita o di fede vissuta perché i modelli sono ormai diventati altri…
Cosa c’entra dunque la parrocchia in tutto questo? E’ chiaro che il modello di parrocchia che conosciamo è fondato sul modello di società precedente dove si pensava che per diventare cristiani sarebbe bastato diventare adulti, come in un percorso automatico. Oggi invece bisogna passare al modello secondo il quale “diventando cristiani si può diventare adulti”.  Cioà solo attraverso il recupero di una fede vera e di una vita donata agli altri l’adulto può dirsi veramente adulto. Per meglio dire: “Incontrando Gesù diventiamo adulti”. Le parrocchie devono quindi diventare luoghi dove si incontra Gesù. Un ambiente generativo di giovani affamati di spiritualità, e di adulti che riscoprono la loro passione educativa e generativa, ritrovando la pienezza dell’umano piuttosto che ricercare l’eterna gioventù. Un luogo insomma dove incrociamo Gesù.

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